La malattia esiste non biologicamente, ma come informazione "viva" che può influire sull'esistenza dei membri di un sistema familiare

La malattia esiste non biologicamente, ma come informazione "viva" che può influire sull'esistenza dei membri di un sistema familiare

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Di recente ho ricevuto un'email da Michelangelo che mi ha fatto molto riflettere. La sua domanda, o meglio, la sua intuizione, tocca un nervo scoperto per molti di noi e riguarda la natura stessa della malattia. Mi chiede, in sostanza, se la malattia, al di là dell'aspetto puramente biologico, esista come "campo di coscienza". Bella domanda, vero? Cerchiamo di fare un po' di chiarezza insieme.

Cosa intendiamo quando parliamo di malattia?

Come ormai sapete, qui cerchiamo di basarci sui fatti. E i fatti, dal mio punto di vista e secondo quello che insegno, ci dicono una cosa fondamentale: la malattia, in senso strettamente organico-biologico, non esiste. Certo, il concetto di malattia esiste, eccome! Ma non esiste la patologia come un'entità esterna che ci attacca. Esiste, semmai, un corpo che si adatta.

Il nostro organismo è una macchina meravigliosa, frutto di milioni di anni di evoluzione, dotata di quelli che chiamo programmi biologici speciali. Questi programmi sono meccanismi di adattamento. A volte, però, il nostro stile di vita moderno, così diverso da quello per cui ci siamo evoluti, crea una sorta di "cortocircuito". Questo scetticismo del nostro organismo verso abitudini e ambienti per cui non era preparato può causare dei palesi disagi. Ma attenzione: questi disagi sono la conseguenza di un tentativo di adattamento a qualcosa che, nell'arco della nostra lunga evoluzione, semplicemente non c'era mai stato.

La buona notizia? Il nostro organismo è incredibilmente plastico. Piano piano, generazione dopo generazione, impara, comprende le novità e, indovinate un po'? Si adatta ancora, creando nuove abitudini, nuove programmazioni. Lo abbiamo visto, ad esempio, con il nostro rapporto con i soldi, che, come dicevamo in recenti podcast, ricalca biologicamente il nostro approccio al cibo.

La malattia come "campo di coscienza"

Torniamo alla domanda di Michelangelo. Se biologicamente la malattia come la intendiamo comunemente non esiste (e quindi, di conseguenza, non esiste nemmeno la "guarigione" come sconfitta di un nemico), cosa dire del suo impatto come "campo di coscienza"?

Beh, qui la risposta si fa più sfumata. È innegabile che la malattia, come concetto e come esperienza, eserciti una forza potente. Non la definirei un campo a sé stante, quanto piuttosto un'informazione che influisce profondamente sugli altri campi.

"È più un'informazione che influisce sugli altri campi."

Pensateci: quando si entra in un ospedale, si percepisce immediatamente un'atmosfera particolare. Io, le rare volte che ci metto piede (solitamente per trovare qualcuno, non per altro!), sento spesso un "odore di morte", una sorta di "naftalina" simbolica. Questo perché, nonostante la tanta buona volontà del personale, in quei luoghi aleggia spesso un'incomprensione di fondo su come funziona realmente l'organismo. E questa incomprensione, a lungo andare, anche con le migliori intenzioni, può creare danni.

Le conseguenze di un'idea radicata

Quando l'idea di "malattia" si radica, porta con sé tutta una serie di conseguenze:

  • Una sorta di idolatrìa del farmaco: Vedendo che alcuni farmaci portano un sollievo iniziale alla sofferenza, è facile sviluppare una fiducia quasi religiosa nei loro confronti.
  • La ricerca della "guarigione" come battaglia: Se esiste la malattia come entità malvagia, allora deve esistere la guarigione come uccisione del mostro, della cellula maligna. Questo scatena la caccia al "Santo Graal", al farmaco risolutore.
  • False aspettative e paura: Un farmaco è uno strumento, a volte utile, a volte neutro, a volte controproducente a seconda della fase biologica in cui ci troviamo. Ma se l'approccio è "lo strumento mi guarisce", si alimentano false aspettative, paura e sofferenza quando non si capisce cosa sta realmente accadendo.

A volte, per "fortuna", l'effetto di un farmaco combacia con le aspettative del medico. Questo genera ottimismo nel medico, che a sua volta rassicura il paziente. Sentendosi più accudito, il paziente ha maggiori possibilità di raggiungere l'omeostasi, ovvero la conclusione del suo programma biologico. Ma capite bene che questo si basa più sulla speranza e sulla coincidenza che su una reale comprensione. È lo "sguardo della madre" che tranquillizza, e più si frequenta questo "campo di coscienza" della malattia, più ci si radicalizza in esso, faticando ad accettare altre prospettive.

Quando l'esperienza rafforza la credenza

Facciamo un esempio. Immaginiamo un uomo la cui moglie affronta un'esperienza difficile in ospedale. Magari i farmaci non sono efficaci, o addirittura peggiorano la situazione perché somministrati nella fase sbagliata del programma biologico (la cosiddetta "Post conflitto lisi A (PCL-A)", dove i sintomi sono più acuti e i farmaci spesso hanno poco effetto). Se il medico è pessimista e dipinge un quadro catastrofico, questo non aiuta di certo. Ammettiamo che la moglie, purtroppo, non ce la faccia.

Cosa penserà il marito? Probabilmente che i medici hanno fatto tutto il possibile, che sono brave persone, che è stato il destino. In parte è vero, ce l'hanno messa tutta... ma tutta per fare cosa, esattamente? Quell'uomo uscirà dall'ospedale con quell'esperienza impressa a fuoco. Sarà molto difficile per lui accettare che si sarebbe potuto approcciare a quel sintomo, a quel fenomeno biologico, in modo diverso.

"Più difficilmente uno accetta la colpa, c'è colpa nel senso di responsabilità, di questo peso del fatto che si potesse fare diversamente."

Se qualcuno provasse a spiegargli che i sintomi potrebbero essere un fenomeno adattativo del corpo, probabilmente reagirebbe con rabbia. Accettare una simile realtà sarebbe quasi insopportabile.

Un'informazione che viaggia nel tempo

Quindi, tornando a noi, non credo che la malattia sia un campo di coscienza propriamente detto. Tuttavia, sono convinto che come informazione, influisca profondamente e possa condizionare intere generazioni all'interno di uno stesso sistema familiare.

Questa è una dinamica che, in un certo senso, mi tocca da vicino. Provengo da diverse generazioni di medici; nel mio "campo di coscienza" familiare i medici abbondano – uno di loro ha persino fondato la prima clinica di Lucerna! E ora si ritrovano con un nipote, un pronipote (cioè io!) che divulga concetti che non si allineano con il paradigma tradizionale, basandosi "soltanto" sull'osservazione.

Potrebbe sembrare che io stia "tradendo le tavole della legge" del mio sistema familiare. E invece, indovinate un po'? Sto ricevendo grande incoraggiamento proprio dalla mia famiglia. Perché, alla fine, quando si inizia a vedere cosa c'è dietro le quinte, si capisce che è positivo se qualcuno prova a cambiare le carte in tavola, a rivoluzionare informazioni che hanno appesantito il sistema di appartenenza, l'albero genealogico.

Bene, spero che queste riflessioni vi siano state utili. Vi auguro una buona serata, un buon pasto e, perché no, un buon cognac!

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